di Francesca Mugnai
Il caso del metalupo – un lupo ibrido che si dice sia stato riportato in vita attraverso la clonazione – non è solo una curiosità scientifica o una provocazione tecnologica. È un potente specchio che riflette qualcosa di molto più profondo: il nostro rapporto con la vita, con la morte e, soprattutto, con gli animali.
Clonare un essere amato, riprodurlo a immagine e somiglianza dell’originale, è un’idea che affascina. Ma inquieta. Chiediamoci fino a che punto siamo disposti a manipolare la vita pur di non affrontare la perdita. Il desiderio di trattenere chi amiamo – anche se non più vivo – è umano, comprensibile. Ma è anche il segnale di una fatica crescente ad accettare il distacco, la fine, l’irreversibilità della morte.
Eppure, anche se il DNA fosse identico, nessuna relazione potrà mai essere la stessa. Gli esseri viventi non sono solo una somma di geni: sono fatti di esperienze, di incontri, di momenti irripetibili. Ogni legame è unico e tentare di replicarlo significa confondere l’affetto con il possesso.
Questo atteggiamento – che potremmo chiamare “possessivo-affettivo” – si manifesta ogni giorno anche nel modo in cui trattiamo gli animali domestici. Li amiamo profondamente, li consideriamo membri della famiglia, ed è bellissimo. Ma talvolta li trasformiamo in prolungamenti di noi stessi, annullando la loro alterità.
Ci siamo mai chiesti se portare i nostri cani al supermercato, in mezzo alla folla e al rumore, sia davvero un gesto d’amore per loro? Oppure se un pomeriggio d’estate in spiaggia a 40 gradi sia un’esperienza benefica, o piuttosto una forzatura per rispondere al nostro bisogno di non separarci mai da loro? Quando li portiamo negli ospedali, a contatto con odori, rumori e situazioni difficili, siamo sicuri di farlo davvero per il loro benessere? E portarli a lavoro, con mani che li accarezzano, confusione, squilli di telefono, rumore di macchinari?
L’umanizzazione dell’animale, seppur mossa da sentimenti sinceri, può diventare una forma sottile di controllo. Li vestiamo, li fotografiamo, li facciamo partecipare ai nostri ritmi e ai nostri riti, ma senza interrogarci abbastanza su chi siano davvero, su cosa li renda felici, su quali siano i loro bisogni autentici.
Il caso del metalupo ci obbliga a tornare a queste domande essenziali. A chiederci se stiamo ancora riconoscendo l’altro – umano o animale – come un essere distinto da noi, con desideri, limiti e diritti propri. O se invece stiamo cercando di replicarlo, inglobarlo, possederlo, per paura della solitudine, della perdita, della fine.
È solo accettando la separazione, il limite, la diversità, che possiamo vivere relazioni autentiche. E forse, paradossalmente, è proprio nel lasciar andare che si esprime la forma più alta di amore.